Fattori di rischio delle malattie cardiovascolari: prevenzione ed attività fisica
Le malattie cardiovascolari sono le principali cause di morte nel mondo (World Health Reporth, 2000, WHO Geneva, 2000) ed anche in Italia sono al primo posto (in particolare la cardiopatia ischemica) superando i tumori e gli accidenti cerebrovascolari. Inoltre le persone che sopravvivono ad un attacco cardiaco diventano malati cronici con un rischio maggiore di recidive e di mortalità rispetto alla norma della popolazione. Le malattie cardiovascolari sono tuttavia in larga parte prevenibili attraverso il controllo dei fattori di rischio e dello stile di vita.
FATTORI DI RISCHIO
In generale i fattori di rischio si possono dividere in due gruppi: non modficabili e modificabili. I non modificabili sono l’età, il sesso e la familiarità; i modificabili sono l’ipertensione arteriosa, l’ipercolesterolemia, il diabete mellito, l’iperglicemia, il fumo, l’obesità, la sedentarietà, lo stress, la depressione. (Si possono anche aggiungere, come fattori scatenanti, l’esposizione a basse temperature, lo sforzo fisico intenso, la fase digestiva). Sebbene si possa intervenire sui fattori di rischio modificabili attraverso la correzione degli stili di vita e l’utilizzo di farmaci, spesso, anche dopo gravi eventi, i fattori di rischio non sembrano ridursi. Per fare un esempio, uno studio pubblicato su Lancet, 2006, espone la correlazione esistente tra fattori di rischio ed infarto miocardico acuto e come più del 90% di tali episodi sia dovuto alla presenza di almeno nove fattori di rischio. In futuro sembra perciò prospettarsi un aumento del numero dei pazienti sopravvissuti ad un evento coronarico acuto che dovranno convivere con una cardiopatia ischemica cronica. In tale scenario risulta fondamentale l’adozione di misure che riducano efficacemente i fattori di rischio ed aiutino la persona nel recupero e nell’evitare le ricadute.
LA CARDIOPATIA ISCHEMICA
La cardiopatia ischemica consiste nella sofferenza metabolica del tessuto miocardico secondaria all’insufficiente perfusione di uno o più vasi arteriosi coronarici per causa di lesioni ostruttive, maggiormente dovute a cause aterosclerotiche, o da grave riduzione dell’ossigenazione ematica. Questa condizione di insufficiente apporto di ossigeno e substrati energetici al miocardio produce un’impossibilità di mantenere la perfusione coronarica adeguata in risposta alle necessità del medesimo miocardio. L’ischemia coronarica può portare ad un quadro acuto di angina instabile in cui l’ischemia è silente (le persone colpite possono non percepire il dolore anginoso, ma avere sintomi simili come una dispnea a minor soglia di sforzo) oppure di infarto miocardico acuto in cui l’ischemia è totale e di durata tale per la quale non c’è recupero del tessuto a valle dell’ostruzione coronarica, comportando un quadro irreversibile dovuto ad un’ostruzione non transitoria. Si può verificare anche un quadro cronico di angina stabile o da sforzo che tuttavia può diventare instabile. Quest’ultimo è un quadro temibile in quanto la persona non riesce a valutarla nella sua pericolosità. È la diversa possibilità evolutiva della placca aterosclerotica che dà luogo ai differenti quadri di dolore anginoso. Nell’angina da sforzo le dimensioni della placca aumentano dando luogo ad episodi di dolore transitorio con caratteristiche che rimangono costanti nel tempo per almeno 60 giorni. Se subentra una richiesta che aumenta il bisogno di apporto di ossigeno può avvenire l’ischemia miocardica. Il dolore classico si può quindi manifestare durante uno sforzo, emozioni forti, freddo o abbondanti libagioni. Nell’angina instabile vi è un aumento del trombo, senza però occlusione completa del lume coronarico. Il dolore è intenso e può insorgere sia a riposo sia dopo modici sforzi. Nell’infarto miocardico acuto il dolore si presenta invece intenso, costante e con segni di instabilità ed insufficienza emodinamica. Senza entrare nello specifico per quanto riguarda la diagnostica strumentale di primo livello gli esami che si possono effettuare sono: l’elettrocardiografia, l’ecocardiografia, la scintigrafia miocardica, la coronarografia, la tomografia computerizzata, la risonanza magnetica, la TAC coronarica. Dal punto di vista terapeutico meccanico si può applicare uno STENT, angioplastica o bypass aortico. Dal punto di vista farmacologico si possono somministrare antiaggreganti (aspirina, ticopidina e clopidrogal), anticoagulanti (eparina sodica non frazionata), statine (riducono il colesterolo e nel post infarto rendono la placca fibrotica), farmaci fibrinolitici o trombolitici, beta-bloccanti (riducono il lavoro del cuore), ACE-inibitori (bloccano gli effetti vasocostrittori dell’angiotensina II).
ATTIVITA’ FISICA
Il già citato studio INTERHEART (Lancet, 2006) ha dimostrato come l’attività fisica regolare comporti una riduzione del rischio di infarto del miocardio del 14% e come le percentuali aumentino se si prendono in considerazione i dati relativi alla prevenzione di mortalità nelle malattie cardiovascolari in generale. L’obiettivo non è perciò l’intensità, bensì rendere l’esercizio fisico costante nel tempo per il paziente cardiopatico, già di suo, per caratteristiche psicologiche, resistente al cambiamento delle proprie abitudini di vita. Dopo aver valutato i fattori di rischio e il profilo di rischio del paziente che può essere basso, medio, alto, il lavoro deve essere svolto in equipe da un team di esperti. Va tracciato un profilo completo di ogni persona sul quale va poi configurato un programma di intervento su misura volto a: migliorare lo stile di vita, correggere i fattori di rischio, incrementare l’attività fisica. Attraverso la valutazione dei test funzionali come per esempio il 6 Minutes Walking Test, si valuta il livello di capacità funzionale del soggetto da un punto di vista organico. La cartella clinica è fondamentale per conoscere i dati clinici strumentali e le comorbidità. Si strutturerà poi un intervento in cui l’allenamento aerobico diventa centrale per una durata di almeno 3-6 mesi per 3-5 volte la settimana e con una durata che va dai 5 ai 60 minuti. L’”endurance training” sarà quindi la base a cui associare la ginnastica respiratoria, il lavoro muscolare degli arti superiori tenendo sempre conto che se il paziente è in uno stato post-evento la frequenza cardiaca non dovrà superare il 40%, per poi arrivare, nel corso del tempo (2-3 mesi), a lavorare senza superare il 70-85% per 20-30 minuti. Si ricordi inoltre che le linee guida consigliano anche per pazienti in prevenzione secondaria (soggetti già portatori di malattie cardiovascolari) di svolgere almeno 30 minuti al giorno di attività fisica moderata (p.e. camminare a passo sostenuto) associando due sedute la settimana di potenziamento muscolare e sfruttare tutte le occasioni per incrementare l’attività fisica: per esempio spostandosi il meno possibile con mezzi motorizzati o prendendo le scale anziché usare gli ascensori. Inoltre se l’attività fisica fosse svolta in contesti socialmente piacevoli questo aumenterebbe la motivazione e quindi la continuità.
BIBLIOGRAFIA
-Galati, A., Vigorito, C. (2012). Riabilitazione cardiologica. Ed.: Edi-ermes. Cap.2, pp.25-47, Cap.3, pp.55-69, Cap.6, pp.189-204, Cap.7,pp.215-225.
- Fattirolli,F., Guiducci, U., Penco,M. (2006). L’esercizio fisico nel paziente con cardiopatia ischemica. MED SPORT; 59:215-24.
- Bettinardi, O., et all. (2014). Documento preliminare alla definizione degli interventi Minimal Care infermieristici, fisioterapici, dietistici e psicologici attuabili nell’ambito della Cardiologia riabilitativa e Preventiva. Monaldi Arch Chest Dis; 82: 122-152.